Saggi
VIDEOPOLITICA
- Giovanni Sartori
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- Published online by Cambridge University Press:
- 14 June 2016, pp. 185-198
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La televisione sta cambiando l'uomo e sta cambiando la politica. Il mio tema é, qui, il potere politico della televisione, e quindi la video-politica; ma la video-politica è soltanto uno spicchio di un più generale video-potere che è il potere dell'immagine. Pertanto la video-politica trasforma la politica nel più alto contesto di un video-potere che sta trasformando in «uomo vedente» l'homo sapiens prodotto dalla cultura scritta. I due temi si intrecciano, e l'uno fluisce inevitabilmente nell'altro.
SCIENZA POLITICA E TEORIA DELL'ORGANIZZAZIONE. LE POSSIBILI CONVERGENZE
- Johan P. Olsen
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- Published online by Cambridge University Press:
- 14 June 2016, pp. 3-22
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Che cosa possono sperare di imparare gli studiosi della politica dando maggiore attenzione alla teoria dell'organizzazione? In questo dopoguerra questa domanda ha ricevuto il più delle volte una risposta pessimistica. Gli scienziati politici non hanno mostrato una tendenza a considerare la teoria dell'organizzazione particolarmente rilevante, interessante o importante. Nonostante ci sia stato qualche significativo esempio di fertilizzazione incrociata, la maggior parte degli osservatori concluse che teoria dell'organizzazione e scienza politica si sono trovate per anni in uno stato di reciproco disinteresse.
PRESIDENZIALISMO E DEMOCRAZIA MAGGIORITARIA
- Arend Lijphart
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- Published online by Cambridge University Press:
- 14 June 2016, pp. 367-384
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Nel suo noto saggio su Democracy, Presidential or Parliamentary: Does it Make a Difference? — ampiamente diffuso e da considerarsi ormai una sorta di classico non pubblicato — Juan Linz (1987, 2) osserva correttamente che gli scienziati della politica hanno trascurato le importanti differenze istituzionali e comportamentali tra regimi parlamentari, presidenziali e semipresidenziali e che, in particolare, queste differenze «ricevono solo scarsa attenzione nei due più recenti lavori di comparazione delle democrazie contemporanee», cioè Comparative Democracies di G. Bingham Powell (1982) e il mio Democracies (Ljiphart 1984). Una ragione per cui il presidenzialismo risulta relativamente trascurato nel mio libro è che nell'universo di 21 democrazie ivi considerato — definito da quei paesi che hanno avuto una ininterrotta esperienza di governo democratico approssimativamente dalla fine della seconda guerra mondiale — compare un solo chiaro caso di governo presidenziale (gli Stati Uniti) e due casi più ambigui (la V Repubblica francese e la Finlandia). Retrospettivamente ritengo di aver applicato i miei criteri in modo troppo stretto e che avrei dovuto includere anche l'India e il Costa Rica tra le mie democrazie «prolungate». Quest'ultimo avrebbe costituito un quarto caso di presidenzialismo. Powell fa ricorso ad una definizione meno esigente di democrazia (un minimo di 5 anni di democrazia nel periodo dal 1958 al 1976), il che gli mette a disposizione altri 4 casi di presidenzialismo: Venezuela, Cile, Uruguay e Filippine.
Vorrei essere ancor più esplicitamente critico sul mio libro del 1984: la debolezza principale non è tanto lo scarso spazio dedicato al contrasto tra presidenzialismo e parlamentarismo (circa 12 pagine su 222, cioè un po’ più del 5% del libro) ma piuttosto il fatto che la discussione non è sufficientemente integrata con la comparazione della democrazia maggioritaria e consensuale, che costituisce il tema principale del lavoro. In particolare, ho definito presidenzialismo e parlamentarismo in riferimento a due caratteristiche contrastanti, ignorando una terza cruciale distinzione, ed ho poi legato il contrasto presidenziale/parlamentare ad una sola delle differenze tra democrazia consensuale e maggioritaria, ignorando il suo impatto su numerose altre distinzioni. L'obiettivo di questo articolo è correggere queste lacune e stabilire la connessione generale tra il contrasto presidenziale/parlamentare e quello maggioritario/consensuale.
Come Linz, il mio atteggiamento sarà critico verso il presidenzialismo, ma tale critica si baserà su argomenti in parte diversi. L'argomento principale di Linz (1987, 11) riguarda «la rigidità che il presidenzialismo introduce nel processo politico e la flessibilità di gran lunga maggiore di questo processo nei sistemi parlamentari». Concordo pienamente con Linz e, in aggiunta, sono d'accordo che rigidità e immobilismo costituiscono i più seri punti deboli del presidenzialismo. In questo articolo la mia critica si concentrerà su una ulteriore debolezza della forma presidenziale di governo: la sua potente inclinazione verso la democrazia maggioritaria e il fatto che, nel gran numero di paesi in cui un naturale consenso di fondo è assente, appare necessaria una forma di democrazia consensuale invece che maggioritaria. Questi paesi comprendono non solo quelli caratterizzati da profonde fratture etniche, razziali e religiose, ma anche quelli con intense divisioni politiche che originano da una storia recente di guerra civile o dittatura militare, enormi diseguaglianze socio-economiche e così via. Inoltre, nei paesi in via di democratizzazione o di ri-democratizzazione le forze non-democratiche devono essere rassicurate e riconciliate ed è necessario fargli accettare l'idea non solo di abbandonare il potere, ma anche di non insistere nel pretendere il mantenimento di «domini riservati» di potere non-democratico all'interno del nuovo, e per gli altri versi democratico, regime. La democrazia consensuale, che è caratterizzata dalla condivisione, dalla limitazione e dalla dispersione del potere, ha molte più probabilità di raggiungere questo obiettivo che non il diretto dominio maggioritario. Come Philippe C. Schmitter ha suggerito, democrazia consensuale significa democrazia «difensiva», che per le minoranze etno-culturali e politiche risulta meno minacciosa dell' «aggres-sivo» governo maggioritario.
Tratterò questo tema in tre fasi. In primo luogo definirò il presidenzialismo in riferimento a tre essenziali caratteristiche. In secondo luogo mostrerò che, specialmente come risultato della sua terza caratteristica, il presidenzialismo ha una forte tendenza a rendere la democrazia più maggioritaria. Infine, esaminerò le varie caratteristiche non-essenziali del presidenzialismo — caratteristiche che, benché presenti di frequente, non sono elementi distintivi della forma di governo presidenziale — ed il loro impatto sul grado di consensualità o maggioritarietà della democrazia.
Ricerche
LA MOBILITÀ ELETTORALE DEGLI ANNI OTTANTA
- Roberto Biorcio, Paolo Natale
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- Published online by Cambridge University Press:
- 14 June 2016, pp. 385-430
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Lo studio della mobilità elettorale si ricollega per diversi aspetti al dibattito sulle tendenze generali del mercato elettorale in Italia e alla problematica legata ai tipi di voto. Lo studio delle forme che può assumere la mobilità elettorale costituisce però, a nostro avviso, un tema dotato comunque di una sua autonoma specificità. Le forme che assume il passaggio da una scelta di voto ad un'altra dipendono sia dalle modifiche di posizionamento dei partiti nell'ambito della competizione elettorale, sia dalle modalità secondo cui i cittadini-elettori si rapportano ad essi e, più in generale, vivono il proprio rapporto con la sfera politica e le istituzioni.
Si possono individuare nella scelta dell'elettore diverse componenti analitiche (cfr. Parisi e Pasquino 1977; Pizzorno 1983 e 1986, Mannheimer e Sani 1987), riconducibili, a nostro avviso, ad alcune peculiari logiche motivazionali. Si può cogliere anzitutto una logica dell'identificazione, secondo cui l'elettore esprime adesione e solidarietà rispetto a qualche tipo di identità collettiva che ritiene rappresentata in una delle proposte di voto in competizione. Le identità collettive che costituiscono il referente necessario per questo tipo di logica motivazionale possono essere già presenti nella società — e semplicemente trascritte o trascrivibili in una delle possibili opzioni di voto — oppure essere costituite dal «discorso identificante» dei politici (Pizzorno 1983). Oppure ancora essere una combinazione di entrambe queste possibilità. Si può poi riconoscere nell'elettore l'esistenza di una logica dell'utilità (o della razionalità strumentale rispetto allo scopo), quando il voto appare finalizzato a favorire (oppure ad ostacolare) tendenze politiche e/o provvedimenti specifici, in base ad un proprio calcolo degli interessi. Insieme a queste due, si può considerare una terza componente analitica nel comportamento elettorale — definibile come logica della protesta — che esprime motivazioni prevalentemente «in negativo» rispetto al voto o rispetto al tradizionale sistema dei partiti; questa logica emerge quando i partiti esistenti non riescono a suscitare sufficiente identificazione nell'elettore, né a rappresentarne le domande sociali. La logica della protesta si può esprimere non solo con l'astensionismo (attivo o passivo), ma anche con il voto per alcuni dei «nuovi partiti» formatisi negli anni settanta e ottanta come espressione di diverse forme di protesta politica o sociale.
È evidente che queste diverse logiche motivazionali possono coesistere nello stesso atto di scelta, con un peso che può variare in base alle caratteristiche dell'elettore, alla congiuntura politico-sociale e al tipo di elezione. Quello che interessa al nostro studio è la relazione fra queste logiche di voto ed i processi di mobilità elettorale: come il peso specifico delle diverse logiche motivazionali può fare variare sia le probabilità di mutamento delle precedenti scelte di voto, sia le forme ed il senso che questo mutamento può assumere.
La logica della identificazione — declinata nelle forme più diverse — costituisce ovviamente la base della fedeltà elettorale di partito o, almeno, di «area politica». Per gli elettori che nel voto esprimono soprattutto una esigenza di identificazione, la probabilità di mutamenti è ridotta, e l'abbandono delle precedenti scelte assume un carattere «traumatico», che si può leggere come segno di un generale processo di ri-orientamento politico-esistenziale. Il passaggio diretto ed immediato da una identificazione ad un'altra è un evento che si verifica raramente. Gli elettori che scelgono di non votare più per un partito in cui si erano identificati sperimentano una fase di relativa incertezza, nella quale possono acquistare maggior peso, almeno transitoriamente, le logiche della protesta o quelle del calcolo delle utilità.
La logica della utilità si esprime in un «calcolo dei vantaggi» che si può riferire tanto a interessi individuali e particolaristici (voto clientelare), quanto a quelli di gruppo o di categoria, fino ad assumere come riferimento interessi più generali (voto di opinione). Il calcolo dei vantaggi di ogni scelta di voto è funzione delle caratteristiche specifiche e congiunturali delle diverse scadenze elettorali. Ci si può aspettare che quanto più pesa, nella scelta del singolo elettore, la logica della utilità, tanto più sono probabili, almeno in linea di principio, i cambiamenti delle opzioni di voto.
Anche la logica della protesta, se non è accompagnata da forte identificazione in un partito vissuto come rappresentante significativo della protesta sociale, fornisce un notevole contributo alla instabilità elettorale: in questo caso è l'atto stesso di abbandono delle precedenti scelte partitiche che diviene il veicolo più importante per l'espressione del risentimento dell'elettore.
Si è rivolta l'attenzione a diversi tipi di mutamento nel comportamento elettorale, analizzando in particolare:
1) i cambiamenti di voto all'interno del gruppo dei 7-8 partiti tradizionalmente presenti — nel dopoguerra — nelle competizioni elettorali: la mobilità in questo caso può essere interpretata come l'esito di un giudizio razionale sugli effetti dell'opzione elettorale sul quadro politico, o su una serie di politiche specifiche;
2) i cambiamenti di voto da uno dei partiti tradizionali alla esplorazione di nuove possibilità di espressione elettorale — nella scelta di votare, ad esempio, per uno dei partiti emersi negli anni settanta ed ottanta, o per qualcuna delle liste che si caratterizzano su specifiche issues (pensioni, ecologia, identità regionali, ecc.);
3) il cambiamento dal voto al non voto, che può essere letto come diminuzione del livello di identificazione (visto dal lato dell'elettore) o nella capacità di mobilitazione (visto dal lato del partito) di una determinata opzione partitica;
4) il ritorno dal non voto (non partecipazione alla votazione o non espressione di voto valido) al voto per una delle liste presenti nella competizione elettorale, che può dipendere dalla accresciuta capacità di suscitare mobilitazione ed identificazione da parte di una delle forze politiche presenti, oppure dalla particolare rilevanza soggettivamente attribuita ad una specifica tornata elettorale.
Lo studio empirico delle forme di mobilità elettorale presenta — come è noto — particolari difficoltà, sia perché ciascuna di esse coinvolge quote limitate del corpo elettorale sia, più in generale, per l'ovvio motivo che non sono disponibili registrazioni — a livello individuale — delle scelte di voto e delle loro variazioni fra una elezione e l'altra. A causa di tali difficoltà e per ovviare ai problemi specifici di ciascuna delle tecniche di analisi, nel nostro studio sulla mobilità elettorale 1983-87 abbiamo fatto riferimento a risultati di ricerche realizzate con diversi metodi: analisi di dati raccolti tramite survey, analisi di dati elettorali aggregati a vari livelli, stime dei flussi elettorali in alcune città e stime di flussi a livello nazionale basate sui dati rilevati in un insieme di sezioni-campione. E nostra opinione che sia legittimo e necessario utilizzare nella ricerca i diversi metodi a disposizione, con la consapevolezza dei vantaggi e dei problemi metodologici che ciascuno di essi pone: soltanto l'attenta comparazione dei risultati ottenuti da diverse fonti può convalidare o, nel caso, porre seri interrogativi sulle ipotesi sostantive via via formulate. In questa sede il nostro interesse è rivolto ai risultati ottenuti con le diverse metodologie, più che alla discussione delle metodologie stesse, per la quale rimandiamo ad altre sedi.
Saggi
DECISIONI DI GOVERNO E VINCOLI PARTITICI
- Jean Blondel
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- Published online by Cambridge University Press:
- 14 June 2016, pp. 199-222
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Fino ad ora, il dibattito sulla natura del processo decisionale interno ai gabinetti di governo è risultato inconcludente. Si è affermato con forza che, almeno in alcuni paesi, i primi ministri sono divenuti l'elemento dominante del processo decisionale e che la collegialità all'interno del gabinetto è ormai un mito; ma l'evidenza portata a sostegno di questa tesi è, nel migliore dei casi alquanto selettiva. Di fatto, presentare il problema in questi termini costituisce una grossa semplificazione poichè numerosi fattori interagiscono: il processo decisionale di gabinetto dipende da variabili come le personalità, il livello relativo di informazione dei ministri, la durata della loro permanenza nel gabinetto, i vincoli delle coalizioni ed anche le tradizioni culturali. Quindi, un approccio realistico a questo problema richiede che si proceda con cautela verso le conclusioni, raccogliendo materiale sulla enorme varietà di situazioni esistenti, classificandole e cercando di valutare l'influenza relativa delle diverse variabili.
RIVOLUZIONI E BUROCRAZIE. QUATTRO CASI A CONFRONTO
- Pietro Grilli di Cortona
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- Published online by Cambridge University Press:
- 14 June 2016, pp. 23-62
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Uno degli argomenti critici più noti nei confronti delle rivoluzioni è che queste conducono ad un maggior dominio burocratico, reso inevitabile da una nuova centralizzazione del sistema e dall'estensione del controllo statale sull'economia. La tesi della degenerazione burocratica delle rivoluzioni, come formazione di nuove stasi e inflessibilità strutturali capaci di frenarne la spinta propulsiva originaria, è dominante, per esempio, anche nella polemica condotta da molti critici marxisti del sistema sovietico che, da Trockij in poi, sottolineano come questo abbia «tradito» gli ideali della rivoluzione bolscevica.
DUE VIE ALLA CITTADINANZA: IL MODELLO SOCIETARIO E IL MODELLO STATALISTA
- Giovanna Zincone
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- Published online by Cambridge University Press:
- 14 June 2016, pp. 223-265
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Quando vogliamo classificare i sistemi politici democratici e li osserviamo in un ottica comparata, tendiamo spesso a sottovalutare quei tratti che più specificamente determinano condizioni di vita diverse per i loro cittadini. Guardiamo, ad esempio, più spesso alla configurazione degli organi decisionali, ai modelli di competizione e di alleanza tra le élites; mentre ci capita meno spesso di utilizzare come criterio di classificazione la possibilità, che può avere un individuo qualunque, di influenzare le decisioni pubbliche. Anche le ricerche sulla partecipazione, che dovrebbero studiare la politica dal punto di vista dei governati, osservano di solito i comportamenti di fatto e le variabili socioeconomiche di tali comportamenti, mentre trascurano i caratteri del sistema. E anche quando se ne occupano, individuano le condizioni giuridiche che permettono o incentivano gli atti di partecipazione (quali ad esempio l'estensione del suffragio, da una parte, o il voto obbligatorio dall'altra), ma non si preoccupano di quei profili delle istituzioni che rendono tali atti di partecipazione efficaci (ad esempio, il ruolo più o meno cruciale degli organismi elettivi rispetto ad altre arene decisionali).
Ricerche
LA FORMAZIONE DELLE ASSOCIAZIONI IMPRENDITORIALI IN EUROPA OCCIDENTALE
- Luca Lanzalaco
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- Published online by Cambridge University Press:
- 14 June 2016, pp. 63-89
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La progressiva attenzione della scienza politica per le tematiche organizzative sembra essere una tendenza incontrovertibile. Gli attori politici collettivi sono visti sempre meno come delle «scatole nere», dei semplici canali di trasmissione di domande e interessi, e si sottolinea, invece, sempre più come essi siano delle organizzazioni complesse la cui condotta è regolata da meccanismi ed imperativi specifici ed autonomi e come, di conseguenza, l'individuazione di queste dinamiche organizzative contribuisca in modo determinante alla comprensione del funzionamento del sistema politico nel suo complesso. La configurazione di una organizzazione politica non è un fatto meramente «tecnico» o «ingegneristico», e men che meno «formale», ma determina l'autonomia e la discrezionalità di cui gode il gruppo dirigente nel ridefinire gli interessi dei gruppi sociali rappresentati e nel «guidare» la membership verso determinate mete collettive. Una delle acquisizioni più rilevanti che sono state fatte in questo campo di indagine è che per spiegare le caratteristiche strutturali di una organizzazione politica occorre risalire al modo in cui essa è nata, si è formata e si è consolidata. Il concetto di struttura, infatti, appartiene ad una classe di concetti utilizzati nelle scienze sociali — i cosiddetti time oriented concepts — che assumono significato solo in un orizzonte temporale diacronico (Rosenthal 1978). Ciò che si percepisce come «strutturale» al tempo T sono modelli di comportamento e interazioni sociali che sono perdurati e si sono stabilizzati al tempo T-1, T-2, T-3, … T-n, e che per questo motivo diventano elementi costitutivi di quella relazione sociale. Quella che potremmo chiamare la fallacy of synchronic reductionism porta a «fotografare» una organizzazione in un dato momento e a considerare tutti i suoi caratteri strutturali in un orizzonte atemporale. Invece, le proprietà strutturali di una organizzazione sono il risultato di scelte organizzative e di processi di adattamento che si sono verificati in momenti e fasi differenti della vita dell'organizzazione e i cui risultati si sono poi «congelati», «sedimentati», «stratificati» nel tempo. Una semplice analisi del contesto ambientale in cui opera un'organizzazione, come suggerisce l'approccio contingency, non è sufficiente in quanto organizzazioni con «storie» differenti potranno dare differenti risposte, in termini di proprietà organizzative, agli identici imperativi posti in un dato momento dallo stesso ambiente. Per spiegare le proprietà strutturali di una organizzazione politica occorre quindi integrare opportunamente l'analisi strutturale-morfologica, basata sull'ipotesi che le organizzazioni tendano ad adattarsi razionalmente alla struttura del loro ambiente, con l'analisi storico-genetica, in base alla quale la razionalità degli attori organizzativi è vincolata dalle loro esperienze passate, dalla storia dell'organizzazione e, in particolare, dal modo in cui l'organizzazione stessa è nata e si è formata. L'approccio genetico ha trovato ampie applicazioni nello studio di vari tipi di organizzazioni politiche: i partiti, i sindacati dei lavoratori, i gruppi di interesse, i movimenti collettivi, le organizzazioni terroristiche. Con questo articolo mi propongo di estendere l'utilizzazione, e di dimostrare l'utilità, di questo approccio anche per quanto riguarda l'analisi di un tipo particolare di organizzazioni politiche, che solo recentemente sono diventate oggetto di studio, cioè le associazioni imprenditoriali. In particolare, mi occuperò delle peak associations, cioè delle confederazioni nazionali intersettoriali, come la confindustria e le sue omologhe in altre nazioni. Nella prossima sezione traccerò una tipologia delle peak associations sulla base del loro «modello originario», cioè del modo in cui sono nate, e del loro grado di istituzionalizzazione; nella seconda sezione verificherò la validità di questa tipologia attraverso l'analisi storico-comparata: illustrerò un «modello a dicotomie successive», costruito alla luce dell'evidenza empirica disponibile, per l'analisi dei processi di formazione delle associazioni imprenditoriali, mettendo in evidenza come a diversi processi di formazione siano corrisposti differenti «modelli originari». Nelle sezioni finali, infine, esaminerò i fattori esplicativi che hanno determinato il prevalere di uno o dell'altro dei vari processi di formazione.
LA CULTURA POLITICA DEL MOVIMENTO SOCIALE ITALIANO
- Piero Ignazi
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- Published online by Cambridge University Press:
- 14 June 2016, pp. 431-465
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Il mondo politico-culturale della destra italiana del dopoguerra è stato trascurato, per lungo tempo, dalla comunità scientifica. A parte il pionieristico lavoro di Giorgio Galli, risalente alla metà degli anni settanta, è soltanto con l'inizio di questo decennio che si sviluppa una seria linea di ricerca su alcune componenti della destra italiana. In particolare, per motivi diversi, vengono privilegiati due versanti: la Nuova Destra e l'area radicale e terrorista. L'attenzione dedicata a questi due fenomeni non è casuale ma trova spiegazione nel fatto che essi costituiscono una sorta di “novità” rispetto al filone centrale del neofascismo: da un lato, la Nuova Destra, emersa alla fine degli anni settanta sulla scia della Nouvelle Droite francese, rappresenta il contributo intellettualmente piò originale e articolato di riflessione e rielaborazione delle coordinate ideologiche e politiche della destra; dall'altro, l'area radicale e terrorista costituisce per la sua intrinseca drammaticità un forte stimolo all'approfondimento delle motivazioni, del costrutto ideologico e delle articolazioni organizzative. Gli studi condotti negli anni ottanta su queste due aree forniscono importanti tasselli alla ricostruzione o alla comprensione della Weltanschauung di destra. Tuttavia è rimasto escluso da questo risveglio di interesse l'espressione piò solida e corposa della destra italiana, vale a dire il Movimento Sociale Italiano.
Va subito precisato, infatti, che il MSI, i movimenti di destra radicale (DR) e la Nuova Destra (ND) pur essendo contigui, si differenziano per complessità organizzativa, strategia politica e referenti culturali. Per quanto riguarda la complessità organizzativa, essa è:
— elevata nel MSI: il partito si struttura secondo il classico modello duvergeriano del «partito di massa» e, tra l'altro, inquadra centinaia di migliaia di iscritti;
— ridotta nelle formazioni della DR: i vari gruppi si strutturano o come piccole sette (i movimenti golpisti e terroristi) o come «comitati» (i movimenti di contromobilitazione moderata e reazionaria degli anni settanta);
— molto bassa nella ND: essa mantiene uno stadio fluido di movimento culturale legato ad iniziative editoriali.
In merito alla strategia politica, essa si articola in tre posizioni distinte:
— alternativa al regime ma accettazione (e pratica) delle regole democratiche per il MSI;
— abbattimento immediato e violento del sistema e rifiuto dei meccanismi democratici per la DR;
— estraneità rispetto al sistema e superamento degli istituti liberaldemocratici attraverso un processo «metapolitico» di egemonizzazione culturale e di ridefinizione delle coordinate ideologiche («al di là della destra e della sinistra») per la ND.
Per quanto attiene, infine, ai referenti culturali si può affermare che, nonostante tutte le componenti attingano ad un medesimo serbatoio, esse si differenziano:
a) per la diversa considerazione del contributo evoliano — superficiale-strumentale nel MSI («doveroso» omaggio ad uno dei pochissimi pensatori forti della destra ma sostanziale ininfluenza dei suoi contributi), esegetico-esistenziale nella DR («il mondo delle rovine», «rapolitia», «l'uomo differenziato», «lo spirito legionario», ecc.), marginale nella ND dove viene ridimensionato per la sua impostazione anti-moderna («il mito incapacitante»);
b) per l'assenza nella DR e nella ND di alcuni cardini della cultura politica missina come il pensiero giuridico (Rocco e Costamagna) e filosofico (Gentile e Spirito) fascista.
Anche se la delimitazione dei confini di queste tre componenti, è stata, in certi periodi e per certi gruppi, alquanto incerta, soprattutto perché il MSI ha rappresentato sempre il primum mobile di tutta Tarea di destra (di qui i frequenti passaggi di confine tra partito e organizzazioni esterne di vari routiers della destra), esse vanno tenute adeguatamente distinte.
Ciò premesso, in questo lavoro intendiamo occuparci esclusivamente del soggetto rimasto finora più in ombra, il Movimento Sociale Italiano. Più in particolare, ci soffermeremo sui tratti salienti della «cultura politica» di questo partito quale emerge, in primo luogo, dalla pubblicistica interna e dai documenti ufficiali (e quindi l'immagine che il partito proietta — e/o intende proiettare — all'esterno) e, in secondo luogo, dalle risposte ad una serie di domande di atteggiamento fornite da un campione significativo di quadri intermedi del MSI.
Dibattito
LA SICUREZZA EUROPEA DOPO IL TRATTATO SUGLI EUROMISSILI: LA PROSPETTIVA AMERICANA
- Eric R. Terzuolo
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- Published online by Cambridge University Press:
- 14 June 2016, pp. 91-112
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È abbastanza naturale che il Trattato INF sugli Euromissili firmato a Washington l'8 dicembre 1987 abbia aperto un ampio dibattito sui problemi del futuro della difesa europea. Infatti, il Trattato è ricco di nuovi elementi che rappresentano una rottura rispetto ai paradigmi consolidati nel campo del controllo degli armamenti. Anche osservatori normalmente critici verso l'amministrazione Reagan hanno ammesso che il Trattato INF creerà condizioni e prospettive nuove «eliminando una intera categoria di armi in cui entrambe le parti avevano effettuato investimenti economici e politici di grande rilievo, imponendo riduzioni asimmetriche al fine di raggiungere un risultato finale equo, stabilendo clausole di verifica precise e a carattere «intrusivo» e dimostrando che la strategia di «armarsi per discutere» può avere successo».
Ricerche
IL DESTINO DEI PICCOLI PARTITI
- Peter Mair
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- Published online by Cambridge University Press:
- 14 June 2016, pp. 467-498
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Nella abbondante letteratura che prefigura una crisi delle convenzionali forme di politica nelle democrazie dell'Europa occidentale un'enfasi speciale è stata posta sulla presunta sfida rivolta ai più tradizionali e consolidati partiti di massa. La stessa politica tradizionale è vista come passè ed i grandi partiti di massa, che ne rappresentano la più classica incarnazione, sono ritenuti — a torto o a ragione — strumenti sempre più inadeguati all'incanalamento delle forme contemporanee della rappresentanza.
La vulnerabilità dei partiti di massa tradizionali pare derivare da due distinti processi. In primo luogo questi partiti sono ritenuti vulnerabili in termini ideologici e di politiche, in quanto rifletterebbero temi e problemi che corrispondono sempre meno agli interessi contemporanei. In secondo luogo, sono visti come vulnerabili sotto il profilo organizzativo, in quanto cittadini più istruiti, articolati e informati non sarebbero più soddisfatti della passività e/o anonimità che caratterizza la partecipazione in questo tipo di partiti e della natura essenzialmente oligarchica attraverso la quale si ritiene venga esercitato il loro controllo. Seguendo con varie intonazioni entrambe queste linee di ragionamento, gran parte della letteratura contemporanea pone conseguentemente l'accen to sulla erosione dei partiti tradizionali e suggerisce un potenziale riallineamento a favore di partiti più recenti e più piccoli, che appaiono allo stesso tempo più sensibili verso le nuove issues e più aperti verso nuove forme di partecipazione. L'emergere di partiti ecologisti in un gran numero di democrazie europee è spesso citato come la prova più evidente della base di un tale riallineamento, ma evidenza dello stesso tipo può anche essere individuata per un gruppo più ampio di partiti che vanno dai Radicali italiani a D'66 nei Paesi Bassi e ai Socialisti di sinistra in Danimarca e Norvegia (Poguntke 1987).
Tuttavia, è chiaro che ognuno di questi argomenti ha implicazioni alquanto diverse. Se, per esempio, quello corretto è il primo, allora il motore principale del cambiamento è il grado di insoddisfazione programmatica e se i partiti tradizionali si rivelassero incapaci di adattarsi dovremmo aspettarci che il riallineamento conseguente favorisca i nuovi partiti. Se invece è corretta la seconda ipotesi, allora il cambiamento principale deriva da insoddisfazione organizzativa e potrebbe risultarne un riallineamento a favore dei piccoli partiti. In realtà i due processi possono essere combinati solo nella misura in cui partiti nuovi tendono anche ad essere partiti piccoli e viceversa, un punto su cui dovremo tornare in seguito.
L'importanza di distinguere tra partiti nuovi e partiti piccoli emerge anche al semplice livello di definizione. Mentre la definizione di cosa costituisca un «nuovo» partito (rispetto a un partito della «nuova politica») non sembra porre difficoltà molto superiori a quelle di stabilire una data di soglia temporale, la definizione di cosa sia un partito «piccolo» è molto più problematica. In quest'ultimo caso sono disponibili due strategie. In primo luogo possiamo definire la piccola dimensione in termini di nlevanza sistemica, o facendo ricorso ai criteri identificati da Sartori (1976, 121-25) oppure a criteri alternativi anch'essi basati sul ruolo sistemico dei partiti in questione (Smith 1987). Tuttavia, in questo caso si tende inevitabilmente a parlare di partiti rilevanti o irrilevanti piuttosto che di partiti piccoli o grandi per sè. La seconda alternativa è quella più ovvia, secondo cui piccoli e grandi partiti possono essere distinti sulla base della semplice dimensione, sia essa elettorale, parlamentare, organizzativa o altro. Di sicuro i piccoli partiti possono essere partiti rilevanti e quelliirrilevanti · possono essere piccoli. In ultima analisi, tuttavia, nel nostro caso «piccolo» si deve riferire alla dimensione piuttosto che al ruolo.
Questo lavoro è parte di un più ampio progetto dedicato alla esperienza dei piccoli partiti nell'Europa occidentale ed altri contributi del progetto tratteranno il ruolo sistemico dei piccoli partiti, le varie soglie di rilevanza nella loro vita e le varie esperienze in un gran numero di diversi contesti nazionali (Mueller, Rommel e Pridham, in via di pubblicazione). L'obiettivo di questo lavoro è semplicemente quello di offrire un quadro di sintesi sull'universo elettorale dei piccoli partiti nell'Europa occidentale del dopoguerra. Attraverso questa analisi spero di mostrare il grado in cui le fortune elettorali di tali partiti sono cambiate nel tempo, di identificare quei paesi e quei periodi in cui tali cambiamenti sono stati più pronunciati e, in particolare, di identificare quali piccoli partiti ne sono stati coinvolti.
Va inoltre aggiunto che si tratta di una analisi a carattere largamente induttivo: cercherò prima di definire cosa costituisca un piccolo partito e in seguito di investigare le modalità e le spiegazioni del cambiamento nel sostegno elettorale aggregato di questi partiti. Intuitivamente si ha la sensazione che il sostegno elettorale dei piccoli partiti sia aumentato negli anni del dopoguerra. Per esempio, la recente nascita di piccoli partiti ecologici, così come le numerose analisi che suggeriscono un declino dei cleavages tradizionali di classe e religione e la crisi concomitante affrontata da quei partiti tradizionali e di grandi dimensioni che mobilitano il voto lungo queste linee di cleavage, sembrano implicare che i partiti di piccola taglia siano divenuti sempre più importanti con il tempo. Anche in questo caso, tuttavia, ci vuole cautela nel mettere in relazione prognosi di mutamento con una classificazione di partiti derivata dalla sola taglia. Non tutti i partiti piccoli sono partiti nuovi, né tantomeno partiti della «nuova politica», e molti si mobilitano elettoralmente in riferimento a linee di frattura molto tradizionali. Un esempio pertinente è quello del Partito popolare svedese in Finlandia. Inoltre, non tutti i nuovi partiti sono partiti piccoli, come evidenzia il successo elettorale della nuova Associazione Cristiano-democratica nei Paesi Bassi. Per la verità, si può anche dubitare che una categorizzazione dei partiti in soli termini di taglia abbia un significato teorico; ma questo è un problema diverso, sul quale torneremo in seguito.
Nonostante questi caveat rimane incontestabile che una lettura non-critica della letteratura contemporanea suggerirebbe che vi è stato nel tempo un aumento di voti verso i piccoli partiti e questa ipotesi di partenza dirigerà la nostra analisi. Nella prossima sezione opereremo una classificazione dei partiti a seconda della loro taglia e, su questa base, una classificazione dei sistemi di partito a seconda della distribuzione dei diversi tipi di partiti. Successivamente analizzeremo la tendenza temporale del sostegno elettorale ai piccoli partiti e cercheremo di offrire alcune spiegazioni per la variazione di queste tendenze. Infine, esamineremo in che modo il voto per i piccoli partiti si distribuisce nelle diverse famiglie politico-ideologiche e studiere-mo l'andamento elettorale dei diversi sottogruppi di piccoli partiti, inclusi i «nuovi» piccoli partiti e i «vecchi» piccoli partiti.
RAPPRESENTANZA E PARLAMENTO EUROPEO
- Luciano Bardi
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- Published online by Cambridge University Press:
- 14 June 2016, pp. 267-299
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Uno degli interrogativi principali posti dalle elezioni a suffragio universale del Parlamento Europeo riguarda la loro capacità di fornire, se non immediatamente almeno nel medio periodo, una legittimità autonoma alla Comunità Europea. Sul piano analitico, questo significa che per uno studio sull'evoluzione della Comunità occorre stabilire se il Parlamento direttamente eletto riuscirà a sostituirsi alle fonti attuali (essenzialmente i governi nazionali) nel fornire legittimità alle azioni di governo europeo.
Note
DEMOCRAZIA E COMPETIZIONE
- Roberto D'Alimonte
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- Published online by Cambridge University Press:
- 14 June 2016, pp. 301-319
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- Article
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Secondo Schumpeter la democrazia politica o, meglio, il metodo democratico è «quello strumento istituzionale per arrivare a decisioni politiche nel quale alcune persone acquistano il potere di decidere mediante una lotta per il voto popolare» (Schumpeter 1973, 257). È su questa definizione che poggia la cosiddetta «teoria competitiva della democrazia». La sua novità; e rilevanza sta nel fatto che la democrazia viene identificata nel prodotto della competizione tra élites politiche. In altre parole, la democrazia rappresentativa deriva dal fatto che il potere di scegliere tra i partiti in competizione è nelle mani del popolo. Il popolo non decide quindi sulle cose, ma decide solo su chi debba decidere. La competizione tra i partiti è il meccanismo che assicura al popolo questo potere e perciò la sua sovranità.
Recensioni
Paul Kennedy, The Rise and Fall of the Great Powers. Economic Change and Military Conflict from 1500 to 2000, New York, Random House, 1987, pp. XXV-677, $ 24.95.
- Fabio Armao
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- Published online by Cambridge University Press:
- 14 June 2016, pp. 499-501
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Note
LA DEMOCRAZIA RIVISITATA DA SARTORI: UNA NOTA
- Giorgio Sola
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- Published online by Cambridge University Press:
- 14 June 2016, pp. 113-136
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L'uscita di The Theory of Democracy Revisited (Chatham, N.J., Chatham House, 1987, 2 voll.) è un avvenimento di grande rilievo, non solo per la comunità politologica internazionale, ma anche per un pubblico colto ed informato. La ragione principale consiste nel fatto che questa opera di oltre cinquecento pagine rappresenta il punto di arrivo e la sintesi di trent'anni di studi e di ricerche condotte da Giovanni Sartori nel campo della politica, con particolare riguardo ai problemi del metodo, allo studio dei partiti e dei sistemi di partito, all'edificazione di una teoria della democrazia in cui trovino coerente collocazione sia gli aspetti descrittivi che quelli prescrittivi, sia le aspirazioni che le valutazioni che accompagnano questo termine fin dal suo apparire nel IV secolo a.C.
Recensioni
Roberto Biorcio Giovanni Lodi, (a cura di), La sfida verde. Il movimento ecologista in Italia, Padova, Liviana Editrice, 1988, pp. 215, L. 20.000. - Mario Diani, Isole nell'arcipelago. Il movimento ecologista in Italia, Bologna, Il Mulino, 1988, p. 279, L. 30.000.
- Marco Giuliani
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- Published online by Cambridge University Press:
- 14 June 2016, pp. 137-139
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- Article
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Rassegne
IL CLIENTELISMO NEL TERZO MONDO
- Mario Caciagli
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- Published online by Cambridge University Press:
- 14 June 2016, pp. 321-331
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Riscoperto dall'antropologia negli anni cinquanta, il clientelismo è stato ormai recepito come consolidata categoria analistica dalle altre scienze sociali, in particolare dalla scienza politica, dove si è venuto definitivamente affermando negli ultimi vent'anni. Serve a studiare rapporti informali di potere, basati sullo scambio di favori fra due persone (ma anche fra due gruppi) in posizione diseguale, ciascuna interessata ad un alleato più forte o più debole. È stato definito come un «rapporto diadico» (Scott 1972; Landé 1973), in virtù del quale una persona di status più elevato(patrono) usa la sua influenza e le sue risorse per procurare protezione e benefici ad una persona di status inferiore (cliente), che ricambia offrendo sostegno o servizi.
Recensioni
Mike Bowker e Phil Williams, Superpower Detente: a Reappraisal, London, Sage, 1988, pp. IX-277.
- Lorenza Sebesta
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- Published online by Cambridge University Press:
- 14 June 2016, pp. 501-503
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A. Downs, Teoria economica della democrazia, Bologna, Il Mulino, 1988.
- Adriano Pappalardo
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- Published online by Cambridge University Press:
- 14 June 2016, pp. 333-334
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Manuel Braga Da Cruz, O partido e o Estado no Salazarismo, Lisbona, Editorial Presença, 1988, pp. 296.
- Anna Bosco
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- Published online by Cambridge University Press:
- 14 June 2016, pp. 503-504
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